Scoppiettante straordinaria critica di Massimiliano Perrotta su Huffpost (cultura)

BAZIN
Uno spettacolo teatrale su un critico cinematografico del secolo scorso, per di più francese? A chi poteva venire in mente un’idea così bizzarra se non a Giancarlo Sepe, regista proficuamente suggestionato dal grande cinema? Non amo particolarmente il teatro figurativo e non capisco la recente moda di adattare per il palcoscenico i capolavori filmici, ma le visioni di Sepe sono sempre potenti e necessarie e “Bazin. Il silenzio è d’oro” lo conferma.
André Bazin («niente di peggio di un cattolico comunista») fu il padre della rivista “Cahiers du cinéma”, da cui germinò la rivoluzione della Nouvelle Vague di Jean-Luc Godard, François Truffaut, Éric Rohmer, Claude Chabrol, Jacques Rivette. Lo spettacolo immagina i deliri dell’ultimo giorno di vita di André Bazin, spentosi quarantenne nel 1958, rievocando un tempo in cui ancora non si sapeva bene che cosa fosse il cinema ed esso rappresentava una luminosa speranza. Le pagine del critico francese sono pacate, rigorose, eleganti, mentre il Bazin di Sepe – interpretato dall’ottimo Pino Tufillaro – è febbrile e disperato perché vuole dirci una parola decisiva sull’arte cinematografica, una parola che infine gli resterà in gola.
“Bazin” è in scena al Teatro La Comunità di Roma, uno spazio creativo antico e fascinoso come gli spettacoli che da cinquant’anni ospita. Per raggiungere la platea si costeggia il palcoscenico ed è commovente sbirciarne la nuda povertà che il genio di Sepe sa trasformare in un mondo di sogno. Del regista è rimarchevole la capacità sintetica: lo spettacolo dura un’ora scarsa, dicendo tutto senza ridondanze e senza mai annoiare.
Dei personaggi Sepe valorizza la dimensione mitica e fantasmatica, dunque non chiede agli attori interpretazioni naturalistiche, li spinge anzi a lavorare sulla loro inautenticità e infatti Giuseppe Arezzi, Marco Celli, Margherita Di Rauso, David Gallarello, Claudia Gambino, Francesca Patucchi, Federica Stefanelli, Guido Targetti sono tutti bravi. Se certe fiction italiane adottassero un analogo registro stilistico, se certi attori invece di provare – invano – a recitare bene la parte, si abbandonassero alla loro inautenticità, forse conseguirebbero risultati più veri.
Spettacolo autoriflessivo e testamentario, “Bazin” fa pensare a un’altra opera funeraria sullo splendore della settima arte e sulle sue speranze tradite: “Histoire(s) du cinéma” di Jean-Luc Godard. Parafrasandolo: Godard il 13 settembre è morto, forse, e noi forse siamo vivi. Ma non c’è poi differenza, non è vero?
Che vivi e morti siamo tutti fantasmi eterni, è quanto il teatro di Giancarlo Sepe sa mostrare.

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